recensione 2

30.07.2014 21:19

Marina Marcolini, sfoglia davanti a
noi un manuale di storia dell'arte, giocando ad interrogare la nostra memoria
iconografica tra dame, ermellini, veneri, fanciulle soporose, cigni e annunciazioni.

Per l'artista la tradizione
pittorica  è come  un immenso spartito musicale da cui l'artista
isola un tema e si dedica all'arte della variazione. Con un dettaglio, una
sostituzione, un'assenza, interviene sull'immagine  codificata e ci
regala il brivido dell'inatteso. Sembra un vezzo intellettualistico, invece
questo scarto dall'originale è il luogo dove l'artista dà forma ad un inquietante
mondo immaginale. Nella rilettura Leonardo, Beato Angelico, Fussli, Tiziano,
Raffaello, Van Eyck, sono i "sei gradi di sublimazione" della materia
pittorica con cui l'artista opera il passaggio da un'immagine tradizionale e
rassicurante ad un'altra freudianamente perturbante. E lo sconcerto è tanto più
grande perchè in un controllato dominio della forma appare la violenza di un
mondo istintuale senza cortesie per l'osservatore.

Il discorso che Marina fa è un
esercizio di retorica in cui la bravura sta all'amplificazione di un pezzo
classico, e in questo l'artista dimostra grande perizia.
L'attenzione  prevale su un femminile presentato in scene che vedono
le protagoniste mai trionfanti, ma contaminate da un ordine maschile variamente
simbolizzato. Le donne in queste opere dormono, o posano statiche nell'inzione
o brillano come presenze fantasmatiche, solitarie o abusate, conquistano il
proscenio soltanto nella purezza dell'oca.

"L'annunciazione" replica
l'impianto di un Beato Angelico, ma non c'è destinataria nè messaggero. La
scena è invasa da due grandi uccelli in un disordine plastico di piume bianche
e azzurre. Non sono colombe, non sono aquile, ma appaiono  segno di un
ordine soverchiante, in un piumaggio che non ispira nulla di celeste, ma un più
carnale ribrezzo. Un'esile colonna sbreccata nel mezzo testimonia di un'integrità
perduta, qualcosa di violato.

Tra le rovine della scuola di Atene,
un Raffaello notturno, una turba di oche starnazzano ai paludati e pomposi
filosofi il chiacchiericcio di un cortile, dove nasce la sofia autentica.
Un'altra tela costruita su stilemi del romanticismi, con rovine, notte e luna, appare
fortemente straniata dalla presenza di un leopardo, una ferinità famelica che
si annida nel profondo dell'anima, un assioma psicanaliticamente corretto.

La dama con l'ermellino ha subito una
cottura alchemica, ed ha raggiunto la nigredo perchè vi troviamo
un'aristocratica africana in panni leonardeschi,  un piacevole
deragliamento anticlassico. Nella cupa scena dell'incubo, gli spettri di Fussli
sono qui in versione Dalì, e declinano una follia panica che con il suo baffo
eretto invade la coscienza aurorale della fanciulla-ninfa.

Il tema dell'erotismo mitologico di
"Leda e il Cigno", che innumerevoli artisti hanno interpretato,
viene ricreato dall'artista come come un trionfo della morte, dove in un
tripudio di piume dispiegate regalmente, il cigno esala un'essenza carnosa e
colante del becco. Zeus fatto fuori dal suo stesso desiderio.

Immersa in un pesante velame rosso
amaranto, Salomè in poltrona ci guarda e rivela la sua femminile schiavitù
negli anelli ai capezzoli. Siede sorretta da un'irreale anatomia come un
burattino che abbia eseguito  il suo numero. Un baffo-Dalì svetta diritto
sul suo volto, mentre ai suoi piedi un piatto non esibisce la testa mozza del
profeta, bensì un baffo inamidato, regale segno troncato.

Nel Van Eyck rivisitato l'autrice usa
una retorica della diminuzione con un naso sfumato di rosso che trasforma
l'espressione compunta del fiammingo in eccesso vinoso, minando la solidità
borghese con un tratto deteriore.

La bellezza di una venere in vesti
domestiche e rinascimentali  stravolta dall'occhio di una prospettiva
cubista.

Chi guarda è Tiziano-Picasso insieme,
l'oggetto dello sguardo è una sposa colta nel letto solitario, contornata dai
simboli della fedeltà coniugale. Ma non è fedele l'applicazione cubista a
quell'armonia di ordine e tranquillità, la riduce a una relatività e la
distrugge. Venere si spezza, mentre la scena circostante resta tale e quale,
l'unicità della dea e della consorte disintegrata in un mondo illusorio, e
nient'altro.

Il ritratto di Andy Warhol accentua la
mistica alchemia di femminile e maschile, coronando di perle una folle
creatura, e quindi sublime nella sua congiunzione di opposti, siglata da una
misteriosa serie di lettere dell'alfabeto, indecifrata.

Marcolini guida fuoristrada nel codice
dell'arte con il fragore di un'immaginazione dai forti contrasti istintuali.
Come nel discorso  più controllato e rispettoso affiora un lapsus, così
nella rivisitazione della tradizione pittorica che l'artista ci propone, appare
una visione risentita e inquieta, affatto candida del mondo. Possiamo non
risvegliare Friedrich, e goderci lo straniamento delle immagini che
l'artista compone, una musica che sposa timbri cupi e sacrificali alla sontuosa
nitidezza degli archi.

Patrizia Miliani